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venerdì 2 febbraio 2024

Sarneghera? - Il Varco nel Vuoto: Tales From the Lake Vol​.​2

#PER CHI AMA: Alternative/Math Rock
Tornano i bresciani Sarneghera? per raccontarci altre epiche storie proveniente dal lago d'Iseo, utilizzando quel loro stralunato sound che già avevamo avuto modo di apprezzare in 'Dr​.​Vanderlei: Tales From the Lake Vol​.​1', atto primo del quartetto nostrano. 'Il Varco nel Vuoto: Tales From the Lake Vol​.​2' prosegue su coordinate similari, arricchendosi tuttavia di ulteriori richiami che, nella distruttiva traccia d'apertura, "Human Killa Machina", sembrano accostare a quella disarmonica linea ritmica già descritta nel debut, richiami di "beatlesiana" memoria nel bridge centrale o addirittura echi dei The Buggles, quelli che cantavano "Video Killed the Radio Stars", per intenderci. Sarò un visionario, però questo è quello che ci sento, nonostante la band lombarda ci prenda a badilate sul muso. E continuano a farlo anche nella più punkeggiante "Vono Box", una cavalcata abrasiva interrotta da momenti più ragionati, che rendono l'ascolto dei nostri più interessante, soprattutto a fronte di un'alternanza vocale - pulito/distorto - alquanto azzeccata e a delle liriche che ancora una volta miscelano più lingue. "Sos" è un pezzo più ipnotico, grazie a un'arpeggiata parte introduttiva che lascerà ben presto il posto a una roboante ritmica in grado di evolversi ulteriormente verso più direzioni, tra il math, l'alternative e il post metal cinematico. Non si tirano certo indietro i Sarneghera?, il braccino corto lo lasciano ad altri e provano in mille modi a sperimentare, riuscendoci poi più o meno bene e non importa, ciò che è rilevante è quello che ne venga fuori sia sicuramente ancora assai apprezzabile. Ultimo brano e sento anche qui odore di provocazione, cosi com'era successo nel primo EP: "L'Universo è una Parte di Me", cantata anche qui in italiano (un'altra analogia col precedente lavoro), mescola garage rock, indie, alternative, post-hardcore e tanto altro, per un pezzo breve, ma ficcante al punto giusto. Mentre mi rimetto ad ascoltare l'EP, ribadisco la necessità di un lavoro più lungo per meglio tastare il polso dei bravi Sarneghera?. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings/I Dischi del Minollo - 2023)
Voto: 74

https://sarneghera.bandcamp.com/album/il-varco-nel-vuoto-tales-from-the-lake-vol-2

lunedì 5 giugno 2023

THËM - Frames

#PER CHI AMA: Post Hardcore
Belli ruvidi e ignoranti, con alle spalle liriche interessanti che si esplicano attraverso le nove tracce contenute in questo 'Frames', delle cornici che sembrano raccontare le perdite, i disagi personali, i fallimenti, le analisi dei percorsi di vita di questa nuova realtà italica che risponde al nome di THËM, band in giro solamente dall'inverno 2022 e che arriva alla genesi del debut album grazie alla Overdub Recordings. Poi spazio alla musica, a quel basso/batteria che apre in modo dirompente "Blinded", alle urla incisive del frontman, ad una musicalità che rivela una certa malinconia di fondo, un post rock che si unisce in modo accattivante al post hardcore. Bomba. Mi hanno già conquistato i tre musicisti nostrani, chitarra/voce, basso e batteria, un'essenzialità disarmante per quanto incisiva in quel flusso sonoro che prosegue nell'irrequietudine di "Smart Pressure" o nella tensione sospesa di "Restless", un pezzo che sembra aggiungere anche una componente post punk alla proposta dei THËM, una cavalcata inquietante in grado di arrecare un enorme sensazione d'ansia che si interrompe improvvisamente, cedendo il passo alla più meditabonda "Purgatory", più incellofanata nella sua esplosività, ma non per questo meno incisiva. "Fragments" è una breve song che poggia su una ritmica serrata, caustica, essenziale, uno schiaffeggiare secco giusto per la durata di un paio di minuti. A placare gli animi arriva "Sober", una traccia di pink floydiana memoria nelle partiture più atmosferiche ma anche per un cantato che potrebbe evocare quello del vecchio e immortale Roger Waters, ultimamente sempre più sulle prime pagine dei giornali internazionali. E allora, in una sorta di tributo alla band inglese, la traccia si muove con fare magnetico in meandri oscuri che potrebbero essere assimilabili a quelli della psiche umana. Più garage punk invece la successiva "Ghost of Myself", non proprio la mia canzone preferita dell'album, ma qualche difetto era pure lecito trovarlo a una band all'esordio. Ancora pulsazioni inquiete emergono dall'iniziale tessuto sonoro di "Strong" che ci delizia con un sound cupo e minaccioso, espressione di un pessimismo cosmico che sembra dilagare nei solchi di 'Frames'. In chiusura, la riflessività di "Time" sembra sancire quella specie di rassegnazione splenica che permea l'album a quanto sbagliato in passato ma con un barlume di speranza volto a fare meglio in un futuro che rimane comunque pieno di incertezza. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2023)
Voto: 73

https://thembnd.bandcamp.com/album/frames

mercoledì 24 maggio 2023

Humus - Non è Giusto

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Ritornano in pista dopo qualche anno dalle due precedenti release, i rockers trentini Humus, con un album esplosivo e in forma più che mai. Il loro rock italiano è di facile impatto e sempre sparato a mille, capitanato da una bella voce maschile, sguaiata e piena di voglia di trasgressione. Musicalmente il sound prende il volo e si può dire che il grande salto sia stato fatto, e se i Maneskin, a detta del mainstream, sono la bibbia dei giovani d'oggi, i nostri Humus, hanno decisamente le carte più in regola per surclassare la più famosa band della penisola del gossip. Detto questo, l'album è ben prodotto, il suono è corposo ed anche se la musica del combo trentino non è il massimo in termini di originalità, bisogna ammettere che siano piuttosto bravi ed efficaci, in fatto di orecchiabilità e dinamica, la band perfetta per i moderni teenagers italiani, che se ascoltassero più musica di questa fattura, avrebbero probabilmente le idee più chiare nei confronti di questo mondo. I testi sono rigorosamente rivolti ad un pubblico giovanile e questo dona freschezza all'intero lavoro. La sua carica esplosiva, il modo urlato di gestire le voci, i riff mirati e la ritmica costantemente pulsante di fondo, riempiono composizioni che colpiscono fin dal primo impatto, e al netto del fatto che siano volutamente e ricercatamente orecchiabili, e non è una dote comune, posso dire che 'Non è Giusto', sembra essere l'album perfetto per chi cerca musica cantata in lingua madre, per ricaricarsi d'energia e mandare tutto e tutti a quel paese. La band suona bene, tutti i brani sono potenti e l'impatto è assicurato, e non voglio arenarmi su banali paragoni con altri gruppi conterranei, perchè gli Humus hanno una loro anima e meritano la vostra attenzione. Le vostre orecchie saranno assaltate da echi hard rock, nu metal, residui pop punk e alternative italiano, suonato e costruito in maniera tosta, niente di complicato o progressivo, tutto diretto e sparato in faccia. Nota di lode finale per la timbrica vocale del frontman, veramente imponente. Impossibile restare fermi di fronte a canzoni come "Disastro", "Se ne Riparla Domenica" o "Qui si Decide". Se avete voglia di graffiante, rumoroso e muscoloso rock tricolore questo album è il toccasana giusto per voi, non fatevelo mancare. (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2023)
Voto: 75

https://www.facebook.com/HumusTn/

sabato 29 aprile 2023

Blind Ride - Paranoid-Critical Method

#PER CHI AMA: Garage Rock/Post Punk
Per Dalí, la rielaborazione razionale delle conseguenze della paranoia, ovvero le delusioni, le allucinazioni e il delirio, rappresentano il processo critico, concetto sul quale poggia la nascita del disco di debutto dei molisani Blind Ride, ‘Paranoid-Critical Method’, che esce tre anni dopo l’EP ‘Too Fast for a Sick Dog’ che ci aveva fatto conoscere la band italica. Ora il terzetto torna più in forma che mai con un sound scontroso ma atmosferico, pesante ma vellutato, il tutto certificato dall’apertura affidata a “Surrogate of a Dream” che mi conquista immediatamente con quella sua matrice ossessiva che sembra coniugare dissonante post punk e garage rock. Il post punk esplode forte anche nella successiva distorsiva “Relationship Goals”, un pezzo che per certi versi mi ha evocato lo spettro dei Fountains D.C. che vanta peraltro un fantastico lavoro alle chitarre nel finale. “For You” ci prende a schiaffi con un groviglio di riff marci quanto basta per catapultarci indietro nel tempo di una trentina d’anni (chi ha detto Sonic Youth?), con la voce di Marco Franceschelli a mandare a fare in culo il mondo intero. “Holy Arrogance” è un manifesto contro le guerre fatte in nome della religione, che si muove su una ritmica piuttosto lineare e che mostra un buon lavoro alle percussioni, al pari di quello delle chitarre. Con “Numbers” ci si muove nei paraggi di uno psych rock compassato, melodico ed ispirato, tale da renderla anche la mia traccia preferita del disco. È decisamente in questa veste più raffinata ed elegante che preferisco infatti i Blind Ride, anche se devo ammettere che il loro fare “arrogante” non mi dispiaccia affatto, come testimoniato nelle chitarre sghembe di “Corporate Rock” e nelle sue lugubri atmosfere dark punk di primi anni ’80. Una modalità che sembra ripetersi anche nella tribalità stoner psych rock di “Stranger to My Eyes”. A decretare la fine dei giochi ci pensa la frenesia pulsante acid rock della strumentale “A Song Without Words”, che sottolinea la capacità dei Blind Ride nel districarsi positivamente in territori musicali battuti e strabattuti. Bravi! (Francesco Scarci)

giovedì 23 marzo 2023

Dez Dare – Perseus War

#PER CHI AMA: Alternative/Garage Rock
In un rituale cosmico di circa 35 minuti, Dez Dare ci delizia con un altro album di psichedelia acuta, stralunata, astratta, figlia di una serie di teorie musicali molto personali, che ruotano attorno a questo musicista australiano con sede a Brighton (UK). La peculiarità nell'accostare strade diverse dalla psichedelia è innegabile nello stile di Dez Dare (al secolo Darren Smallman), passando dalle immagini dell'artwork, colorate e allucinate, al bel video di "Bozo", questa volta il nostro menestrello sonico, crea muri sonori con un ammasso di suoni provenienti da variegate direzioni. Che siano le chitarre fuzz dei Dinosaur Jr, il garage dei Gorilla, il krautrock, il noise rock, il fattore hippie caro a Brant Bjork, il proto punk degli Stooges, la prima synth wave elettronica o il mondo immaginario messo in musica da Daevid Allen, poco importa al nostro incredibile figlio, non dei fiori, ma dei funghi allucinogeni. Ogni cosa nel suo mondo è psichedelia, quindi, nelle sue composizioni, ci si può trovare di fronte ad un cantato che ricordi i primi riverberi dei Monster Magnet ("OUCH!"), o che un effetto vocale, diciamo alla The Pop Group (!?!), sia inserito in un contesto ipnotico di un rock scheletrico proveniente dallo spazio ("My Heels + My Toes, My Lies + My Nose"), ricordando l'effetto follia di "The Return of Sathington Willoughby", brano d'apertura di 'Brown Book' dei Primus. Tutto questo è praticamente concepito con una logica di libera espressione, di fatto tra le mura domestiche, un "Do It Yourself" anticonvenzionale, che rende tutti gli album di Dez Dare un'esperienza cosmica unica. Il suo è uno stile altamente originale, da puro e simpatico anti divo e artigiano del suono, dove il canto/parlato alla Beastie Boys, si confonde con quello dei Fu Manchu e con il tipico approccio punk, in un'atmosfera costantemente dilatata, sormontata da montagne di fuzz e xilofoni dal retrogusto dark. In effetti, come tutte le sue realizzazioni, non è facile descrivere le sue opere, si possono fare degli accostamenti a priori, ma il mood compositivo con cui genera e degenera la sua musica, scardinando il modus operandi della maggior parte delle bands che suonano questo genere, gli permette di essere veramente unico, nel bene e nel male dell'opera, e nel percorrere la strada che porta alle infinite lande della psichedelia sotterranea. L'orecchiabilità dei suoi brani è un'altra delle sue caratteristiche, poiché anche 'Perseus War', si contraddistingue per la sua facilità di approccio, anche se tutto è allucinato ed ipnotico a dismisura e nulla è lasciato al caso, e questo lo si percepisce benissimo ascoltando la ricercata musica di Dez Dare. I 2:54 minuti del singolo "Bozo", sono un apripista splendido. Garage rock degno dei 500ft of Pipe, guidato da una ritmica spinta alla Hawkind, rumori di fondo, feedback, un tremolante xilofono giocattolo e umore lo–fi. Un video divertente accompagna il brano, surreale e spettrale, decisamente geniale, come del resto anche il video inquietante di "Bloodbath-on-HI". Penso che in ambito sotterraneo Dez Dare non abbia tanti rivali, lui è diversamente psichedelico, in senso talmente ampio, che l'impossibilità di paragonarlo a qualche altro artista è reale. La sua arte riesce a parlare delle lotte dell'universo per la sua sopravvivenza come della pressione quotidiana che l'uomo subisce nella sua esistenza contemporaneamente, attraverso suoni ed immagini, che sdoganano con una certa naturalezza, incubi, sogni, allucinazioni e figure da cartone animato, atmosfere horror e commedie satiriche del sabato sera. La proposta di quest'artista è forse quanto di meglio il mondo psych rock oggi possa offrire, un rock disagiato, che non guarda necessariamente al virtuosismo, che abbandona la veste patinata e torna allo splendore del sottosuolo, fa rumore intelligente, oltrepassa il confine nuovamente, e illumina come le band di un tempo. Una musica adatta per i più folli ma sani di mente, una musica da evitare per i puristi e poco liberi all'ascolto. (Bob Stoner)

lunedì 30 gennaio 2023

Kamala - Limbo666

#PER CHI AMA: Psych Rock
A dicembre dello scorso anno usciva il nuovo disco dei Kamala, band tedesca con base a Lipsia, che avevamo lasciato con ottime credenziali ai tempi del precedente album del 2019, 'Your Sugar'. Oggi il quintetto ci grazia con un disco ancora più elegante e curato, guidato a dovere dalla bella e ispirata voce di Christian Kamper, e da un guitar style delicato e tanto efficace, dedito a raccogliere stilemi artistici di stampo jazzistico ma rivolti ad un suono frizzante, intimo, e decisamente rock, anche se in maniera molto originale e soft. La caratteristica principale che identifica questa band è il modo moderato, ricercato e sofisticato con cui si apprestano a divulgare il verbo del rock, in una veste decisamente accessibile e volutamente, passatemi il termine, intellettuale, in molti casi ai confini di tante altre derive musicali. A modo loro, i nsotri presentano un crossover sonoro diviso tra alternative rock, soul, '70s rock, psichedelia teutonica (tra echi lontani di Harmonia e La Dusseldorf), new wave, free jazz e fusion. Tutte queste idee sono però filtrate da un gusto musicale assai melodico che, come scrissi nella precedente recensione, li avvicina ad un certo modo di fare musica, simile a band di culto, dal tocco vellutato ed ipnotico, note per la loro capacità creativa; parliamo di artisti come gli Aztec Camera oppure la psichedelia dei The Dukes of Stratosphear. La cosa interessante è, che quando la band teutonica si sposta da questo terreno le cose cambiano, come in "Freudian Autocorrect", brano in cui la band, pur tenendo alto il tasso di qualità esecutiva, non riesce ad esprimere la sua magia completamente, ma la dirotta verso qualcosa di non propriamente suo, formando in questo caso, uno spartiacque tra le prime quattro tracce del disco, una più bella dell'altra (il mio brano preferito in assoluto rimane "Talking Dirty"), e le restanti quattro che chiudono il disco. Posso dire comunque, che lo spartiacque è veramente momentaneo, perchè la successiva "Yuko & Memori", rimette in carreggiata i miei sentori verso quest'opera, ripristinando l'equilibrio sperato, con un inizio quasi psychobilly, introdotto da una chitarra in lontananza che riecheggia ad un virtuosismo alla maniera di un Van Halen d'annata, per poi correre con quella verve nobile e luminosa che contraddistingue la band. Il rock scorre multicolore ed in molteplici direzioni, mai troppo rumoroso, quasi tenuto in sordina, per non offuscare con il rumore e lo strepitio di muri di distorsione, le capacità di questi ottimi musicisti (la sezione ritmica è notevole con il suo tocco pulsante ma sempre composto). "Narcissus" è una lunga ballata dai colori vividi, cari a certa neo psichedelia inglese degli anni '90, e mette in mostra le notevoli capacità vocali di Kamper, che ricorda molto da vicino il Jeff Buckley più intimista. La conclusione è affidata a "Blindspots", coronata di piccole gemme ritmiche e variazioni geniali che amplificano la bravura tecnico/compositiva di questi musicisti. 'Limbo666' è un album curato nei dettagli, compreso l'artwork di copertina, dove colori e fantasia sono uno standard fin dal loro EP d'esordio, un suono caldo e pieno tutto da gustare. Aggiungerei anche, che 'Limbo666', è la loro più completa uscita discografica, il rock che si mostra nella sua forma migliore, rinunciando a muscoli e giubbotti di pelle. Alla fine ne consiglio l'ascolto a chi ama la musica rock d'ampie vedute, suonata a dovere. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2022)
Voto: 79

https://kamalapsych.bandcamp.com/album/limbo666

domenica 11 dicembre 2022

Nix & the Nothings - Here Goes Nothing

#PER CHI AMA: Punk/Garage
Norvegia, Bergen, la patria del black metal, ma non solo. Da qui arrivano infatti i Nix & the Nothings con il loro album di debutto, "Here Goes Nothing", uno sporco esempio di punk garage rock dalle tinte oscure. Si, perchè l'atmosfera che si respira nella traccia d'apertura, "Caveyard", ha un sound sporco, tetro e cattivo che potrebbe evocare i The Kinks ma anche i Misfits, sebbene quell'hammond in sottofondo possa semmai chiamare in causa i The Doors, ma lo stile è decisamente incazzato, vuoi forse per un cantato che sembra sotto gli effluvii dell'alcol. Dalla successiva "Why", la band non sembra più prendersi sul serio e sembra lanciarsi invece in un surf rock anni '60, con il solo difetto che la registrazione sembra essere avvenuta in cantina e per di più con l'aratro. Buona la componente vocale che dona quel giusto grado di ruvidezza al disco, cosi come pure l'assolo che chiude il brano. Si prosegue con "Good for Nothing" e lo schema non cambia, con quel concentrato di garage rock irriverente, a tratti nostalgico, sciorinato in ogni singola traccia, che alla fine rischiano di risultare forse troppo prevedibili per un disco, che sembra essere un tributo alla musica di oltre mezzo secolo fa. "All Night Long" offre un approccio "fake" live in un pezzo meno scanzonato e più mid-tempo, mentre con "Too Many Bugs" si torna a ballare nel fango. Con la successiva "Mushroom Baby" i nostri sembrano ritornare alle reminiscenze surf in un brano avvincente (fantastico il basso) ma penalizzato un po' troppo da quella "sporcizia" di fondo a livello produttivo, qui più evidente che da altre parti. "No Ghost", la song per cui è stato anche girato un video, è un pezzo acid blues rock che ahimè non mi prende per niente e non fa altro che spingermi a skippare alla successiva "Movin On", che come anticipato dal titolo, ha un carattere più movimentato e punk rock, con tanto di coro ruffiano, azzeccatissimo. In chiusura, la traccia più lunga del lotto, "Here Goes", quella però dall'attacco più mellifluo, con tanto di duetto vocale uomo donna che la fanno apparire come la classica ballad del disco o se volete, la degna conclusione di un lavoro che soffre di un'altalenanza umorale ancora da rivedere. (Francesco Scarci)

mercoledì 30 novembre 2022

The Wild Century - Organic

#PER CHI AMA: Psych Rock
Con questo album, uscito per la Tonzonen Records, la band olandese osa valicare il confine che delimita l'ispirazione presa in prestito da un genere e il rischio di imitazione delle sue opere sonore, perchè per ogni nota che scorre in questo nuovo lavoro dei The Wild Century, troviamo un legame pesante per composizione, stile e sonorità con qualche brano famoso degli ultimi 50 anni della storia del rock psichedelico. Metto subito in chiaro che il combo riprende le citate sonorità talmente bene, che non si può parlare di imitazione, tanto meno di plagio, semmai di forsennata ispirazione presa a prestito, ed è un ascolto divertentissimo quello di 'Organic', un ascolto che in un qualche modo ci permette di ristabilire contatti con un mondo che magari avevamo dimenticato o, nel peggiore delle ipotesi, mai approfondito. Quest'ottimo album quindi vi fornirà un compendio di rimandi musicali talmente esaustiva da farvi esclamare a gran voce che i The Wild Century, pur non essendo innovativi o puramente originali, rimangono un'ottima, moderna, retro rock band con i fiocchi, che ricordano tante altre realtà della scena che fu ma che alla fine risultano, nel loro circolo vizioso di suoni, interessanti e belli da sentire. Straordinaria la scelta dei suoni vintage di quest'opera, che sembra provenire direttamente dai '70s e che ricalca fin troppo i beniamini di quell'epoca. Si parte con la cavalcata psych di "Lowdown Dog", che solca le orme dei Velvet Underground con un effetto vocale alla Hawkind per approdare ad "Oh Yeah", dove il wah wah della chitarra iniziale evoca spudoratamente "Woodoo Child" del grande Hendrix, con un tiro garage che si sposta tra fuzzstones e certi ritmi cari a 'Second Coming' degli Stone Roses, con un organo in primo piano da brivido. "Carry On" rallenta la spinta, e tra gli accennati deserti sonici alla "The End" dei The Doors o una vaga similitudine ad un brano di un Bob Dylan d'annata, ci culla verso lidi vicini ai Mother Superior di "Save my Soul" (da 'The Mothership Movement' del 1998) ed una lunga coda finale carica di venature progressive e psichedeliche in sintonia con i primi Deep Purple. Il sitar e tanta psichedelia ipnotica, accompagnano poi l'evoluzione cosmica di "Beautiful Queen" che sembra cantata dallo spettro di Mick Farren. "Grey Blue Eyes" è una ballata super psych che richiama le origini della band forse mostravano molta più originalità e uno stile decisamente meno derivativo, ma con un taglio meno professionale sotto certi aspetti sonori, e più underground. Gli assoli di "Mother's Grace" a metà e in chiusura del brano, sono delle chicche, anche se la song, a tratti, non nasconde affinità con il mood di "Nights in White Satin" dei The Moody Blues. Per concludere, devo spezzare una lancia a favore di quest'album tanto derivativo quanto indovinato, ben curato e ricercato, per una band che si può tranquillamente accostare ai magici e mai dimenticati On Trial, quanto ai tanti gruppi menzionati sopra, aggiungendo anche i Baby Woodrose, 13th Floor Elevators, i Kula Shaker e tutti quelli che trovano posto nell'immaginario sonoro di questo particolare secolo selvaggio. L'ascolto ne vale proprio la pena, il viaggio culturale e cosmico sono assicurati. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records/Soulfood Music - 2022)
Voto: 75

https://thewildcentury.bandcamp.com/album/organic-2

lunedì 14 novembre 2022

Hyndaco - Starship Tubbies

#PER CHI AMA: Psych Rock
Psych rock che ci catapulta indietro nel tempo di mezzo secolo quello proposto dagli italiani Hyndaco in questo debut EP intitolato 'Starship Tubbies'. Cinque pezzi che delineano, sin dall'iniziale "Rosalipstick", un genere che evidenzia immediatamente come le radici musicali dei nostri affondino negli anni '60/70 grazie ad un garage rock visionario, guidato da una grande prova al basso di Lorenzo Ricci e un lavoro ai synth, tanto retrò quanto lisergico a metà brano, a cura di Andrea Ugolini. Questi a mio avviso i due pezzi forte del quintetto nella prima song, anche perchè il vocalist, in tutta franchezza, non mi fa proprio impazzire, complice un cantato all'inizio troppo impersonale. Nella successiva "Atlantika" infatti, il buon Lorenzo Vitali prova a modulare in miglior modo la sua ugola che nella song d'apertura sembrava più difficile da gestire. Allo stesso tempo, anche la musica sembra decisamente più compassata ed elegante, l'unico problema è l'eccessiva velocità con cui i nostri decidono di chiudere un brano che stava mostrando un discreto lavoro alla chitarra solista da parte di Francesco Lucchi. Con "Lubber" le atmosfere si fanno più delicate e suadenti grazie ad un gioco di armonizzazioni che rendono il tutto davvero piacevole da ascoltare, con una mistura che combina un caleidoscopico mix tra blues rock, kraut e psichedelia di settantiana memoria, con una prova vocale qui davvero convincente. La macchina Hyndaco qui sembra davvero oliata e il risultato è sorprendente anche quando il frontman ci regala uno strabiliante urlaccio a fine brano. Mi iniziano quasi a conquistare questi ragazzi, complice una consapevolezza nei propri mezzi ed una certa creatività che va via via migliorando con l'avanzare dei brani. Ho ancora problemi a digerire la voce nella title track ma un altro bel giro di basso, accompagnato da un bel lavoro di chitarra e tastiere che dipingono landscape che mi spingono a immaginare tramonti infuocati, mi fanno soprassedere sulla performance "ballerina" del frontman italico. Non chiedetemi il razionale di queste sensazioni, non ve lo saprei spiegare. Cosi come non riuscirei a spiegarvi per quale motivo l'inizio di "Foxtrot" mi abbia evocato i Depeche Mode nelle sue note di synth o i The Cure nel suo incedere darkeggiante mah, reminiscenze di tempi splendidi che furono. Per ora gustatevi questo primo episodio degli Hyndaco, potreste rimanerne sorprendentemente ammaliati. (Francesco Scarci)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 72

https://www.facebook.com/hyndacoband

mercoledì 9 novembre 2022

Sarneghera? - Dr​.​Vanderlei: Tales From the Lake Vol​.​1

#PER CHI AMA: Alternative/Math Rock
Voi avete idea di che cosa sia la Sarneghera? È una leggenda metropolitana che la identifica come una tempesta violenta che sembrerebbe collegata alla tragica morte di una ragazza promessa sposa ad un nobile, ma poi gettatasi nel lago d'Iseo, per una drammatica e fatale delusione d'amore. E quindi il cielo tuona vendetta per quell'amore strappato, scatenando vento e pioggia sul lago. Tutto molto affascinante, tanto da spingere la band bresciana a trarre ispirazione da questa storia per il loro moniker. 'Dr​.​Vanderlei: Tales From the Lake Vol​.​1' riprende la stessa storia con altri personaggi: un alieno naufragato nei pressi del lago e il misterioso Dr. Vanderlei che ritrova una maschera in grado di reinventare il linguaggio. Tutto questo nel debutto dei nostri Sarneghera? che ci presentano un sound alternativo sporcato da molteplici influenze. Il tutto appare chiaro sin dall'opener "Larsen Attack" che attacca con una ritmica disarmonica non proprio lineare ed un linguaggio lirico inventato che miscela italiano, inglese, francese, spagnolo, latino in un pot-pourri di parole neonate, il tutto accompagnato da bordate ritmiche che accompagnano una proposta dritta ma comunque assai melodica. Nelle note della prima traccia ci sento inoltre influenze math-rock e post-hardcore. Con "Spyrium" invece quelle colgo sono derive garage rock in un sound che si conferma dinamico ed imprevedibile nella sua alternanza ritmica, con una serie di saliscendi di chitarra che donano una certa originalità e freschezza alla musicalità del combo lombardo. È però con "Lampara" che mi lascio maggiormente suggestionare dai Sarneghera?, grazie ad un gioco di chiaroscuri di chitarra e basso (ma anche a cura di fantasiose percussioni), che per ben tre minuti generano, attraverso uno space rock cosmico e progressivo, una palpabile tensione nell'aria che rimarrà almeno fino a quando la voce salmodiante del frontman farà il suo ingresso in un contesto musicale più controllato rispetto ai precedenti pezzi, ma di comunque grande impatto. In questo brano addirittura compare un bel vocione distorto a mostrare l'ecletticità della band. In chiusura, "Prima i Terrestri" (una parodia forse dello slogano del buon Salvini?), l'unica canzone cantata esclusivamente in italiano, che abbina ancora math rock, alternative, crossover e post metal in un brano che evoca Tool, Lingua e A Perfect Circle in una devastante e sghemba galoppata di oltre quattro minuti. Quella dei Sarneghera? è una bella scoperta, ora non ci resta che attendere un album più lungo e strutturato. (Francesco Scarci)

sabato 17 settembre 2022

Heat Fandango – Reboot System

#PER CHI AMA: Psych/Noise Rock
Già da qualche tempo ci troviamo ad avere a che fare con dischi che sono in qualche modo figli del lockdown, del distanziamento sociale o, comunque lo si voglia chiamare, di quella cesura nella vita di molti che è stato l’annus horribilis 2020. Ci sono dischi che sono nati “per colpa” (o merito) del lockdown nonostante questa cosa sia arrivata a prendersi gran parte della nostra vita sociale. 'Reboot System' fa molto probabilmente parte di questa seconda categoria: registrato tra marzo e maggio 2020, forzatamente “a distanza”, non è chiaro se i brani fossero stati scritti e provati prima, “in presenza” (inquietante quanto certe espressioni, altrimenti orribili e cacofoniche, siano ormai entrate nel nostro lessico quitidiano) dalla band al completo. Comunque sia, Tommaso Pela, Marco Giaccani e Michele Alessandrini hanno registrato questo loro esordio ognuno a casa propria ed il risultato finale è davvero di ottima fattura. I tre hanno all’attivo una lunga militanza nell’undergound marchigiano e portano in dote indiscutibile perizia tecnica, idee chiare sulla direzione da intraprendere e sul suono che vogliono avere. Le radici sembrano affondare con decisione nel garage rock americano in stile Fleshtones, ma il suono non è mero revival e cerca nuove strade, affiancando chitarra twang a synth taglienti e una sezione ritmica potente e precisa, di stampo quasi wave. E gli episodi migliori sono proprio quelli in cui la commistione tra queste due anime, quella garage e quale wave, viene esibita e spinta in maniera scoperta ("Controlled", "Guilty"). In definitiva, un disco che è una bella boccata d’aria, meno di 35 minuti molto divertenti e mai banali. Rimane la curiosità di capire se e quanto gli Heat Fandango suonino diversi visti dal vivo, tutti insieme sullo stesso palco. (Mauro Catena)

(Bloody Sound Fucktory - 2021)
Voto: 74

https://bloodysound.bandcamp.com/album/reboot-system  

martedì 13 settembre 2022

Dez Dare – Ulysses Trash

#PER CHI AMA: Garage Rock
Nuovo album per lo stravagante artista di Brighton, che dal suo cappello magico, estrae un altro disco veramente divertente, tutto da gustare. Un lavoro multicolore di psichedelia ortodossa, figlia di un amore assoluto verso la parte più acida del mondo del rock e del low-fi. La cosa che più colpisce della musica di Dez Dare è che, pur muovendosi all'interno di un contesto molto abusato e saturo come il fuzz sound di matrice seventies, riesce a renderlo ancora una volta affascinante, grazie ad un modo tutto suo di interagire con muri di riff distorti che sanno di vintage ma che non smettono di brillare di luce propria. Quindi, ci troviamo di fronte ad un ambiente cosmico che richiama alcuni viaggi degli Hawkins, fatti a bordo di un vecchio furgone Volkswagen T2, non in perfette condizioni ma coloratissimo, che fa apparire la contea di Brighton come la California dei Fu Manchu degli esordi. Una versione del suono distorto del mitico Hendrix che ha deciso di smettere con gli assoli e dedicarsi ad una musica più diretta, come se gli Mc5 fossero in procinto di partire per lo spazio ed il riff della perla sonica "1.9.8.5." fosse uno splendido manifesto della sua arte, tra potenza proto punk alla Stooges e garage rock underground. Il fatto che tutti i cantati, nelle loro linee melodiche ricordino molto da vicino la formula vincente di 'Licensed to Ill' dei Beastie Boys la dice lunga sullo stile di questo guru del fuzz, che non ci pensa due volte ad inserire vie tortuose nella sua musica, pur di definirne un concetto di libertà compositiva assoluta, anche a rischio di ricordare troppo qualche collega più famoso. È il caso del riff iniziale di "Trashin'" che suona come un remake di "For Whom the Bell Tolls" di Hetfield e soci, oppure quello di "Bloody Sea, Holy Fuck", che ricorda l'inizio di "Country House" dei Blur, rivisitato in stile Trailer Hitch, compianta e poco conosciuta band di camionisti americana uscita per la Man's Ruin Records nel 1997, un anno di grazia per lo stoner rock. Tra le brevi composizioni che compongono il nuovo scrigno magico, vi troviamo anche brani più complessi e introspettivi, come "Outrage, Metrics, Mechanics, Death", robotico e drammatico sabba dal fascino cupo e sinistro, dove l'artista britannico si muove tranquillamente a suo agio anche in veste più ambient/noise in salsa dark. In definitiva, l'arte rumorosa di Dez Dare è come un portale verso una nuova costellazione di un cosmo sconosciuto, creata da un cultore di suoni del passato, che non vuole assolutamente far dimenticare, e che con questo nuovo 'Ulysses Trash' riporta le sue teorie a suon di fuzz, in uno stato di grazia underground delizioso, continuando in maniera vigorosa la sua opera musicale iniziata nel 2020 con l'ottimo debutto 'So Cold, Josephine'. Nota di merito anche per l'artwork coloratissimo dalle acide, fumettistiche e strepitose copertine, che ne caratterizza ulteriormente la vena artistica indomabile, gli allucinati video che lo accompagnano e per i testi anti pop, dei vari brani, “ ...la mia testa è così piena che non riesco a sognare...” (...My Head is so Full I Can't Dream...). Lunga vita allo stregone psichedelico di Brighton! Lunga vita alla psichedelia sotterranea! Entrate nel mondo fantastico di un vero artista di culto underground! (Bob Stoner)

domenica 30 gennaio 2022

The Mummies - Death by Unga Bunga!!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Punk/Garage Rock
Un'acufenica e praticamente inascoltabile discarica di singoli e ritagli assortiti buttata giù a passeggiata di cane da parte della più ortodossa, fracassona e strafottente band della intera ultraortodossa, iperfracassona e strastrafottente scena garage/surf/revival californiana fineottanta/inizio'novanta. Produzioni eterogenee, barattolose, meteoritiche, sguaiate. Tantissimo garage (tipo "I'm Gonna Kill My Baby Tonight"), tantissimo surf (tipo "A Girl Like You" e "Die!") e una conclamata, rivendicata, ostentata inettitudine nei confronti di qualunque forma di armonia, intesa nell'accezione più ampia del termine. I musicisti sono ignare mummie, i costumi di scena sono bende di tela, gli strumenti solo scomodi sarcofagi musicali. Tutti i vinili pubblicati a suo tempo, vale a dire nei primi novanta, dai Mummies riportavano la scritta "fuck cd", ciò che apparirebbe hipsterosamente snob oggigiorno, eppure nel booklet di questa compilation postuma avrete il piacere di individuare una iconoclastica "fuck vinyl ha haa". Non è sufficiente per affezionarsi al progetto, ma è un inizio migliore di altri. (Alberto Calorosi)

(Estrus Records - 2003)
Voto: 58

http://www.themummies.com/

mercoledì 1 settembre 2021

Dez Dare - Hairline Ego Trip

#PER CHI AMA: Punk Rock
Un po' di insana follia punk rock era tempo che non la ascoltavo. Dovevo attendere questo frescone inglese nato in Australia che, durante il famigerato lockdown, ha pensato di mettersi in proprio e buttare giù un po' di stravaganti pezzi orecchiabili. Ecco la genesi di questo 'Hairline Ego Trip' dei Dez Dare. Nove brani che partono dal punk primigenio di "Dumb Dumb Dumb", tanto selvaggio quanto scanzonato per poco meno di due minuti di musica. La cosa prosegue con il garage rock di "Conspiracy, O' Conspiracy", niente di travolgente ma mostra un tocco che palesa già una certa personalità. Quella che emerge forte invece in "King + Queen Monstrosity", laddove potrebbe sembrare stravagante, ma non lo è affatto, parlare di psych punk doom, vista la natura slow motion del brano. Esperimento riuscitissimo. Si passa ad un surf rock sporcato di venature stoner con "My My Medulla", un pezzo che ci conduce direttamente agli anni '60. Non male ma un po' lontano dai miei gusti musicali. Divertente ma troppo vintage. Si continua a percorrere la strada dello stoner/desert rock polveroso con "Sandy’s Gonna Try" ed un cantato che invece sembra uscire da uno dei brani dei Sex Pistols, ma l'energia che emana ahimè non è la medesima. "Break My Vice" sono 100 secondi di uno stralunato post punk, mentre "Crowned by Catastrophe" ha quasi un piglio blues rock nel sua cantilentante incedere ipnotico. "Goodbye Autonomy" mette in scena altri 107 secondi di un sound tanto stravagante quanto difficile da etichettare senza doverci scrivere una tesi che descriva cosa il musicista di Brighton voleva realmente proporre. Ancora punk rock con la lunghissima "Tractor Beam, Shitstorm", quasi dieci minuti di musica psicotica e ridondante in grado di destabilizzare i sensi con i suoi giri di chitarra in loop ma anche in grado di sottolineare l'imprevedibile genialità di quest'artista britannico. (Francesco Scarci)

martedì 17 agosto 2021

super FLORENCE jam - S/t

#PER CHI AMA: Garage Rock
Continuano le uscite relativa al decimo anniversario della Bird's Robe Records, questa volta con il quartetto dei super FLORENCE jam (mi raccomando scritto rigorosamente in questo modo, non mi sono sbagliato). L'EP di quest'oggi rappresenta il loro debutto del 2009 e l'etichetta australiana ci ripropone il rock'n roll dei nostri per darci un assaggio di questi campioni (almeno in patria) di Sydney. La loro proposta? Lo dicevo una riga poco più su, un garage rock di settantiana memoria che sembra coniugare i Led Zeppelin (soprattutto con un vocalist che strizza l'occhiolino o forse meglio dire le corde vocali, con Robert Plant) con un che dei Beatles, mantenendo intatto quello spirito libertino di fine anni '60. Lo dimostrano le chitarre e i chorus dell'iniziale "Ghetto Project Fabulous", cosi come i fumi psichedelici della lenta e doorsiana "The Circle" per quello che un vero tuffo nel passato musicale più lisergico della nostra storia. Certo, siamo ovviamente lontani dalle divinità di quegli anni, però meglio non lamentarsi e divertirsi ripescando vecchie sonorità in grado di coniugare garage, punk, rock, psych e perchè no, anche stoner, con una verve allegra e rallegrante, come quella offerta da "Marcy" o dalla melodia orecchiabile di "Ten Years" e ancora dal roboante sound di "No Time", dove il frontman (in versione Ozzy qui) urla quasi fino a far esplodere l'intera collezione di bicchieri di cristallo che ho in casa. In chiusura, spazio alla malinconica "No Man's Land", una specie di ballata semiacustica, e dai tratti pink floydiani a livello solistico, che chiude un disco forse più indicato per gli amanti di simili sonorità, curiosi di conoscere una realtà che forse si erano lasciati scappare in passato. (Francesco Scarci)

lunedì 26 luglio 2021

Not Movin LTD - Live in the Eighties

#PER CHI AMA: Garage Rock
Premessa all'ascolto di questo 'Live in the Eighties': se siete alla ricerca di suoni puliti e cristallini, questo non è il disco adatto a voi. Quello dei Not Moving, band garage rock piacentina in giro negli anni '80, tra le cui fila vi era quel 'Dome La Muerte', che abbiamo recensito qualche mese fa su queste stesse pagine, è un lavoro che comprende una serie di brani live risalenti al periodo 1985-88, e pubblicati nel 2005 dalla Go Down Records (il lavoro all'epoca includeva peraltro un dvd, oggi scaricabile dal sito della label stessa). Oggi, l'etichetta italica ristampa quel lavoro di una band riformatasi un paio d'anni fa con un moniker leggermente modificato in Not Movin LTD. Cosi, per rendere tributo alla band, ecco fare un tuffo nel passato per assaporare quei 13 brani che vedevano peraltro i nostri proporre anche "Break on Through" dei The Doors, l'inedita "Kissin Cousins" di Elvis Presley, "I Just Wanna Make Love to You" di Willie Dixon e "Cocksucker Blues" dei The Rolling Stones, giusto per inquadrare una proposta musicale che ora sarà molto molto più chiara. Ho parlato di garage rock all'inizio ma quanto contenuto qui è solo terremotante puro rock'n roll, registrazione pessima inclusa e stacchi tra un pezzo e l'altro che evidenziano come i brani siano stati estrapolati da più concerti, un peccato veniale quest'ultimo. Per il resto lasciarsi investire dal vibrante punk rock dei Not Movin LTD è l'unica raccomandazione che mi sento di darvi oggi, cosi come farsi ammaliare dalle voci di Rita 'Lilith' Oberti, una che potrebbe aver influenzato l’ugula istrionica di Pina Kollars dei Thee Maldoror Kollective di 'Knownothingism'. I brani sono tutti carichi di adrenalina, ma se dovessi scegliere i miei preferiti, direi la psichedelica "Sweet Beat Angel" e l'altra inedita "No Friend of Mine", un pezzo che potrebbe evocare un che dei Metallica del periodo 'Black Album' (un similare approccio è udibile anche nei primi secondi di "Catman"). Echi doorsiani emergono nella psicotica "I Stopped Yawning", mentre "Goin' Down" sembra essere un inno al punk. Insomma, una bella carrellata di pezzi che ci mostrano un pezzo di storia che per la maggior parte di noi è verosimilmente rimasta oscura. (Francesco Scarci)

La Go Down Records ristampa una gemma fonografica che aveva già pubblicato nel 2005, ovvero questo splendido 'Live in the Eighties' dei Not Moving, band che infiammò tra il 1981 e il 1988 i palcoscenici italiani e non solo con delle esibizioni dal vivo a dir poco devastanti. Il disco è la conferma della loro forza scenica che si esprimeva tra garage rock, post punk, punk, psychobilly e psichedelia ottimamente miscelati tra loro. Una band apprezzata anche da personaggi internazionali del calibro di Jello Biafra e John Peel, capitanata fin dagli esordi dalla splendida figura e voce di Lilith (Rita Oberti) e a ruota dalla chitarra di Dome la Muerte (Domenico Petrosino), un progetto che sfociò in una serie di concerti come spalla di veri autentici miti come Johnny Thunders o Joe Strummer e che diede vita ad una serie di album tra full length ed EP che sono divenuti leggendari nel cicuito underground. Il disco in questione nel formato del 2005 era accompagnato da un DVD ma nella ristampa odierna è solo cd e versione digitale (ma comunque si può visionare e scaricare tramite il sito dell'etichetta), ed è un peccato non poter riappropriarsi visivamente di  quelle performance diaboliche, riascoltare le cover riadattate di "Break On Through" dei The Doors o "Cocksucker Blues" dei Rolling Stones, assieme alle altre di Willie Dixon ed Elvis Presley, con il selvaggio rintocco delle note suonate come solo i Not Moving sapevano fare in quel periodo nel bel paese. Quest'album non rende giustizia al suono della band come qualità sonora, anche se l'audio è più che onorevole, ma la innalza a repertorio cultural-musicale che ha fatto storia, il fissare un momento nel tempo che oggi più che mai ha la funzione di portare in alto una band che nel panorama underground italiano, a cavallo degli anni '80, fece scuola e deve essere ricordata e riscoperta da tutti gli appassionati di musica alternativa del bel paese. La band portava il nome di un brano dei DNA di Arto Lindsay, rincorreva le forme artistiche di The Cramps e l'avanguardia di Lydia Lunch, una meteora sonora nata dal nulla nella sconosciuta provincia piacentina che scrisse delle pagine di rock sotterraneo a dir poco esaltanti. (Bob Stoner)

giovedì 15 luglio 2021

Neumatic Parlo - Random Toaster

#PER CHI AMA: Indie Rock/Shoegaze, Radiohead
Già celebrati lo scorso anno dal buon Bob Stoner in occasione del loro debut 'All Purpose Slicer', tornano in sella i teutonici Neumatic Parlo con un EP nuovo di zecca, 'Random Toaster'. Cinque song per saggiare lo stato di forma dei nostri dopo questo anno e mezzo di follia pandemica. Devo ammettere che i cinque di Düsseldorf non se la passano affatto male, proponendo sempre quel concentrato di indie garage rock, che ammicca, sin dalle note dell'iniziale "Real Insight", ad un che dei Radiohead, qui rivisti in una versione più psichedelica ma pure punkeggiante, esplicato nelle note pulsanti di quel basso strappa applausi. Un po' come il battito del cuore, sorretto da un elettronico pacemaker, il sound del quintetto tedesco mi acchiappa che è un piacere, facendo fluire sotto la mia pelle piacevoli ed inebrianti sensazioni che arrivano a toccare l'apice in quella sorta di assolo conclusivo. Assai sperimentale invece "Nicolas Winding Refn", ma essendo un tributo all'omonimo e geniale regista danese divenuto famoso per il film 'Drive', era lecito aspettarselo. Andatevi a vedere il film e magari nel frattempo ascoltatevi un brano che, almeno nella prima metà, suona quasi surreale con quelle percussioni in primo piano, in compagnia della voce del bravo Vincent Göttler e un sottofondo noise al contempo sognante. Molto più orientata a velleità shoegaze/post punk, la terza "Lake Perris State Recreation Area", grazie a quella sua malinconica atmosfera su cui poggia la ritmica cadenzata dei nostri con la voce di Vincent qui in versione più straziante. Più classica e forse ancorata ai primi Radiohead, ma ancor prima ai The Smiths, la quarta "Ghost", francamente il pezzo che alla fine meno mi ha colpito, perchè privo di quella vena di originalità riscontrata nei precedenti brani. Tuttavia, nella seconda parte il brano si riprende ed è un crescendo emotivo alquanto affascinante. In chiusura, la lunghissima "Airplane", quasi dieci minuti di musica che aprono con le ambientali sonorità che strizzano nuovamente l'occhiolino a 'Kid A' dei Radiohead, per poi virare verso ipnotici giri di chitarra e litanici vocalizzi, e decollare infine in un crescendo chitarristico che ci porterà fino al termine di questo ottimo lavoro, secondo interessantissimo biglietto da visita di questi Neumatic Parlo. (Francesco Scarci)

sabato 8 maggio 2021

Yawning Man – Live At Maximum Festival (reissue)

#PER CHI AMA: Psych Rock
«Gli Yawning Man erano la desert band più assurda di tutti i tempi. Ti bastava essere lassù, nel deserto, con tutti gli altri a divertirti. Ed apparivano loro, sul loro furgone, tiravano fuori la loro roba e la montavano proprio nell'ora in cui il sole calava, attivavano i generatori [...] Era tutto molto alterato, confuso, era tutto molto mistico. La gente stava lì a sballarsi, e loro continuavano a suonare per ore. Oh, sono la più grande band che abbia mai visto» Firmato Brant Bjork (2002). Mario Lalli è uno di quei musicisti la cui influenza sulla scena che ha contribuito a creare, è di gran lunga più grande del successo o della riconoscibilità della sua figura verso il grande pubblico. E se oggi più o meno tutti sanno chi sia Josh Homme, e molti altri conoscono John Garcia, Brant Bjork e Nick Olivieri, quello di Mario Lalli è rimasto un nome di culto. Un culto fedele e devoto, certo, ma che mai ha nemmeno sfiorato la popolarità degli altri alfieri del cosiddetto “Desert rock”. E se la sua creatura degli anni '90, i Fatso Jetson, ha raccolto consensi sfruttando l’onda lunga del successo di Kyuss e QOTSA, la storia degli Yawning Man rimane ancora parzialmente non scritta, complice il fatto che, pur avendo praticamente inventato il genere negli anni '80, la loro prima registrazione ufficiale è datata 2005. E ora la Go Down Records ci offre questa reissue di una loro esibizione live in Italia del 2013, che ben fotografa il loro rock, rigorosamente strumentale, tonante ed ipnotico, caratterizzato da lunghe cavalcate desert-psych in cui il basso di Lalli la fa da padrone, magnificamente supportato dal potente drumming di Alfredo Hernandez e dalla chitarra di Gary Arce. Il suono del trio si caratterizza per un bilanciamento quasi paritetico dei ruoli, senza che nessuno alla fine risulti preponderante, e risulta evidente come una proposta del genere, che oggi non stupisce più di tanto, possa aver smosso (ed espanso) le coscienze di chiunque abbia assistito ad un loro show nel deserto negli anni '80. La dimensione live è sicuramente quella ideale per apprezzare gli Yawning Man in tutto il loro spessore, e in questo il disco centra sicuramente l’obiettivo. Rimane il fatto che un concerto del genere, spogliato della sua dimensione esperienziale, risulta inevitabilmente monco, ma questa è un’altra storia. (Mauro Catena)

lunedì 15 marzo 2021

OJM - Live at Rocket Club

#PER CHI AMA: Stoner/Garage Rock
Gli OJM non hanno bisogno di presentazioni, essendo una delle band di culto negli ambienti stoner rock e nella psichedelia, e avendo una carriera alle spalle notevole con svariate release e performance che li hanno resi popolari in tutta Europa ed anche oltreoceano. La band vanta tour e collaborazioni importanti con artisti del calibro di Brant Bjork o Paul Chain e numerosi concerti assieme a band di fama internazionale. La compagine trevigiana è entrata di diritto nell'olimpo dello stoner rock del vecchio continente partendo dalla gavetta e sudando note da tutti i pori, mangiando pane e distorsioni fuzz per tanto tempo, coltivando il rito dell'esibizione live, credendo in essa come nella massima espressione del rock'n'roll, che doveva essere esplosiva, trascinante, acida, proprio come nella loro formula musicale. Quindi la Go Down Records, in collaborazione con la Vincebus Eruptum, decidono in questo 2021, a 10 anni di distanza da quell'evento, di dare alle stampe, in edizione limitata in vinile di sole 300 copie, l'intero live degli OJM al Rocket Club di Landshut, in Germania, donando ai fans della band un'occasione in più per riassaporare la grande energia, sprigionata sul palco e catturata da Martin Pollner nel lontano 2011, nel tour dell'ultimo studio album intitolato, 'Volcano'. L'act italico non si è mai sciolto, si è semplicemente preso una lunga pausa e questo disco ci delizia e accompagna, dopo tanto tempo di latitanza, nella riscoperta di un combo compatto, lisergico e allucinato, che traeva spunto dal garage dei The Fleshstones, quanto al mito degli Mc5, che osavano rivendicare una vena altamente psichedelica, riproponendo "Hush" dei primi Deep Purple, suonando ruvido e sporco come i primi Mudhoney. L'album si fregia della presenza di piano bass e organo elettrico, suonati da Stefano Paski, che risaltano il ricercato suono vintage, mentre il resto degli strumenti sputano fuoco e fiamme per una prestazione assai calda e sanguigna. Il solo difetto di questo disco, a mio parere, sta nella qualità che si avvicina più ad un buon bootleg live vecchio stile ponendosi pertanto inferiore alla qualità del precedente 'Live in France' del 2008 (prodotto da Michael Davis – Mc5), pur risultando essere un'ottima fotografia dell'ultimo periodo del gruppo, con molti brani estratti da 'Volcano' e, oltre alla già citata cover dei Deep Purple, con brani tratti dal precedente album in studio, 'Under the Thunder'. Un disco che farà la felicità dei fans degli OJM e del loro sound, averlo sarà un buon pretesto per completare la loro discografia oppure, per chi se li fosse persi fino ad ora, un ottimo motivo per scoprirli in tutta la loro irruente energia live. Un nuovo disco dal vivo che ci porta alla riscoperta di una grande band, stimata da molti musicisti di livello internazionale. (Bob Stoner)

lunedì 1 marzo 2021

Love Machine - Düsseldorf - Tokio

#PER CHI AMA: Garage Rock/Psichedelia
Avevo lasciato i Love Machine con il buon album 'Times to Come' del 2018, perdendomi tuttavia 'Mirrors & Money' nel 2019, che solo di recente sono riuscito ad ascoltare. Nel 2021 i cinque teutonici presentano questo nuovo album intitolato 'Düsseldorf - Tokio', mostrandosi più bizzarri che mai, con un lavoro che presenta una geniale novità, ovvero il cantato in lingua madre, a rimarcare la totale alienità di questa band dai confini classici del rock a cui fanno riferimento. Il canto in tedesco mostra tutta la durezza della sua pronuncia e porta molto bene ai Love Machine perchè, mi si passi il termine, suonano ancor più estroversi e krautrock, anche se decisamente in un contesto di psichedelia assai diversa dal quel filone musicale dei '70s. Le influenze musicali sono molte per la band tedesca e spostarsi dall'easy listening/lounge dei sixties al Johnny Cash di 'Ride This Train' è una cosa quasi scontata, il passo poi risulta breve anche tra il Presley di 'Viva Las Vegas' e certo garage punk'n'roll che, al cospetto del fantasma dei Birthday Party, riportano in vita l'anima malata della band australiana ed in chiusura del disco, sfornano due ottime tracce di rock sgraziato e selvaggio, "That Mean Old Thing" e "The Animal", i soli due brani cantati in lingua d'Albione. Queste due canzoni sono le uniche dotate di una certa scarica elettrica e vitalità ritmica, con cori stralunati e un'indole distruttiva, molto diverse spiritualmente e ritmicamente dal resto delle tracce. Comunque, se in un disco appaiono solo due canzoni veramente ritmate, non vuol dire che il resto sia da buttare anzi, direi che il vero stile dei Love Machine risieda proprio in quelle ballate miti e patinate tra glam, rock sulfureo e sonorità psichedeliche da pseudo figli dei fiori. Inoltre, se aggiungiamo una voce sensuale e profonda come Barry White, che incrocia la tenebrosità di certe interpretazioni a metà strada tra il Blixa Bargeld di 'Nerissimo' e i Crime & the City Solution, le cose si fanno più interessanti. Basta osservare il brano "Hauptbahnhof" dove, al minuto 1:53, nel bel mezzo di un contesto musicale tra il noir e il romantico di una ballata sonnolenta, un glaciale grido disperato cambia le sorti del brano, elevandolo a gioiello di disperazione per antonomasia. Prendendo atto della magnifica e spettrale voce baritonale da oltretomba di "100 Jahre Frieden", dove plasticata felicità e tristezza si fondono per esplodere in un assolo di chitarra tagliente come un rasoio, la proposta musicale diventa molto suggestiva. L'album continua tra sporadiche e assassine stilettate di chitarra, ritmiche allucinate a suon di morbido rock e di tanto visionaria quanto pacata psichedelia. Il tutto è guidato da un'interpretazione vocale impressionante a cura del vocalist Marcel Rösche, che racconta con stile da crooner vissuto, di una città malata e sofferente, vizi e disperazioni presentati con vellutata saggezza e ruvida sfrontatezza in memoria della coppia Bowie/Reed, tra raffinatezza e spazzatura, proprio come descritto nelle note del disco. Un vero album bohémien, che non teme confronti nè paragoni, poiché vive di luce propria e si nutre di una certa originalità artistica sanguigna, cosa che porta la band di Düsseldorf a ritagliarsi una scena tutta propria nel vasto mondo del retro rock. Il che spinge l'ascoltatore a porsi di fronte ad una scelta obbligata, amare od odiare lo stile di questa singolare band. A mio parere 'Düsseldorf - Tokio' è un ottimo album, originale ed interessante, un mondo sonoro tutto da scoprire! (Bob Stoner)